ALLORA COME OGGI


A margine del Giorno della memoria: I governi democratici hanno compiuto durante e dopo la guerra e commettono tutt’oggi atti che violano i diritti umani, compiendo fra l’altro omissioni di soccorso in grande scala. Un intervento di Antonella Romeo

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I sopravvissuti, i profughi vengono respinti, e non si riesce a ricollocarli allora come oggi –  Lager in Libia

Torino – Come ogni anno si sono concluse le commemorazioni per il Giorno della Memoria, il 27 gennaio, anniversario della “liberazione” del campo di Auschwitz. In realtà quando le truppe dell’Armata Rossa arrivarono ad Auschwitz nel campo di sterminio non c’era più l’ombra di un nazista. Le SS del campo avevano costretto i sopravvissuti a una marcia della morte e fino all’ultimo li tormentarono, privandoli dell’ultima speranza di vita. Nel campo erano rimasti solo i più deboli e i malati. «Per molti sopravvissuti la Liberazione significò semplicemente poter morire da liberi», scrisse Elie Wiesel nella sua autobiografia Tutti i fiumi scorrono verso il mare.

L’assemblea delle Nazioni unite deliberò nel novembre 2006 che il 27 gennaio nel mondo intero si dovessero commemorare le vittime dell’Olocausto. In Germania e in Gran Bretagna in questo giorno si issavano le bandiere a mezz’asta già dal 1996.

Esther Béjarano canta per testimonare

Da dodici anni una profusione di iniziative si concentrano intorno al 27 di gennaio. I pochi sopravvissuti rimasti diventano sempre più ambiti testimoni, e possono ripetere davanti alle telecamere, nelle cerimonie, nelle interviste per l’ennesima volta la loro traumatica esperienza. Ne sa qualcosa, Esther Béjarano che ha fatto parte dell’orchestra femminile di Auschwitz. Oggi la musicista ha 93 anni, vive in Germania, e insieme a un gruppo di rapper, canta per testimoniare la sua esperienza di perseguitata e di deportata nei campi di Auschwitz e di Ravensbrück.

Esther non ha fatto di sé un monumento alla memoria, ma ci ricorda il presente: il razzismo, il neofascismo, il destino degli odierni profughi, la piaga delle guerre, del militarismo, del commercio lucroso delle armi. In questo Esther è una grande donna e riesce a scampare un pericolo. Che i cerimoniali della memoria esprimano a un’immane collettiva ipocrisia. Vero è che ricordare i crimini del passato non costa niente a parte l’affitto di qualche sala conferenze e la stampa di qualche locandina. Ma garantire i diritti umani nel presente questo è molto più costoso e politicamente rischioso. Ce lo dimostra la storia stessa di quelle stesse violazioni passate, per le quali è stato istituito il Giorno della Memoria. Nella contemporaneità degli accadimenti, e nella consapevolezza che stessero accadendo, i governi sedicenti democratici si sono sempre tirati indietro dall’intervenire.

La ragazza con la fisarmonica

Si parta dall’esperienza di Esther e quella dei suoi compagni di sventura, come lei li ha raccontati nella Ragazza con la fisarmonica (Edizioni Seb27, Torino 2013). I genitori di Esther si resero conto solo dopo la notte dei cristalli che la situazione per loro era diventata insostenibile. La sorella Ruth era stata in quella notte malmenata e sanguinante si trascinò faticosamente a casa. Ripresasi dalle ferite e dallo shock si rifugiò in Olanda.

Il padre di Esther, cantore della Comunità ebraica fece domanda di lavoro a Zurigo dove la comunità aveva un posto vacante. Ma gli svizzeri rifiutarono la sua candidatura perché lui era solo ebreo al cinquanta per cento avendo una madre cristiana. Eppure in quel momento era già chiaro soprattutto ai dirigenti delle comunità ebraica quale pericolo corressero gli ebrei nel Terzo Reich. Allora il padre di Esther cercò di portare la famiglia negli Stati Uniti, dove era già scappato anni prima il figlio Gerd, accolto da parenti. Ma gli Stati Uniti pretendevano dagli immigranti una cauzione troppo alta e né la famiglia di Esther, né i parenti americani avevano tutti quei soldi. Inoltre in quell’anno, il 1939, la quota degli ebrei tedeschi e austriaci che potevano essere ammessi negli Usa era stata stabilita in 27.370 persone. La lista di attesa era di anni. Forse con gli ebrei più abbienti si sarebbe fatto eccezione. Ma non era il caso della famiglia di Esther.

Attraversare da clandestini l’oceano

Centinaia di ebrei tedeschi e austriaci in quegli anni cercarono di attraversare da clandestini l’oceano. La nave St.Louis, nel 1939 da Amburgo con il suo carico di circa un migliaio cittadini ebrei salpò verso le Americhe, fu respinta dalle autorità e costretta a tornare in Europa. Così dovettero tornare altre navi il cui carico umano cercava scampo dall’altra parte dell’Oceano, la Fiandre francese, la britannica Orduña. Il Presidente degli Stati Uniti non fece eccezioni per i profughi delle navi e li respinse, condannandoli a tornare in Europa.

I genitori di Esther non tentarono di partire senza il visto e furono atrocemente trucidati e gettati nelle fosse comuni nei pressi di Riga, nei primi eccidi commessi dalle SS nell’est europeo. La sorella Ruth fuggì dall’Olanda occupata dai nazisti, cercò di rifugiarsi col marito in Svizzera, venne scoperta sul territorio elvetico e rimandata in Germania, dove venne trucidata. Esther fino a poco tempo fa aveva creduto e “sperato” che gli avessero sparato i nazisti sul confine svizzero e invece scorpì che Ruth purtroppo è stata prima deportata e ha trovato ad Auschwitz la morte. Esther cercò di scappare in Palestina, ma restò intrappolata nei confini del Reich, sigillati nel 1941.

Spesso in Germania ci si è interrogati su quanto i contemporanei fossero consapevoli di quanto stesse succedendo ai concittadini ebrei. Se gli alleati fossero a conoscenza di Auschwitz e dei campi di sterminio. Oggi sappiamo che il Pentagono e il Dipartimento di Stato degli Usa lo sapeva e nonostante questo la ferrovia che portava nei campi dell’est non venne mai bombardata dagli Alleati.

Circondato dal filo spinato in Palestina

E cosa è successo dopo, quando i crimini vennero indiscutibilmente alla luce, e i sopravvissuti consumati dalla fame, dalla fatica e dalle malattie cercarono di riprendere a vivere? Esther racconta di aver preso dopo la Liberazione una grande nave da Marsiglia diretta in Palestina, ma con documenti falsi. La Palestina era allora sotto il mandato britannico e gli inglesi non volevano troppi immigrati ebrei, per questo concedettero pochissimi visti. Esther era, tecnicamente parlando, su quella nave una clandestina. Viaggiò con documenti falsi. Sbarcata in Palestina attese 40 giorni in un campo di raccolta prima di poter riabbracciare la sorella Tosca. Aveva sperato che lei e i suoi compagni di sventura sarebbero stati accolti a braccia aperte e invece si videro rinchiudere in quel campo circondato dal filo spinato, e credettero di essere di nuovo finiti in un campo di concentramento, come racconta nelle sue memorie. Non era la popolazione ad accoglierli così, ma il governo britannico.

Intanto in Germania decine di migliaia di sopravvissuti, le cosiddette displaced persons, persone dislocate, continuavano davvero a vivere nei vecchi campi di concentramento in condizioni precarie, esposti alle malattie e alla malnutrizione. Il cibo era scarso anche per i tedeschi, ma per loro lo era di più. Il campo più grande di sopravvissuti quello di Bergen Belsen, dove arriveranno a vivere 12 mila persone, riuscì a chiudere solo nel 1950. Erano persone disperate, singoli sopravvissuti a tutta la famiglia, a casa nessuno li aspettava, il Paese dove vivevano e i vicini di casa si erano mostrati ostili verso di loro. Soprattutto gli ebrei e i rom. Mancavano i Paesi dove essere ricollocati. Non si fece a gara per accoglierli.

Le porte chiuse

Elie Wiesel, che aveva 16 anni quando arrivò ad Auschwitz (premio Nobel per la pace 1986) nella sua autobiografia Tutti i fiumi vanno al mare, racconta che per loro sopravvissuti le porte degli altri paesi erano chiuse.

«Decine di migliaia di uomini e donne, giovani e vecchi, continuavano a vivere nei Lager sul territorio tedesco sotto gli occhi dei tedeschi, perché America e Canada, Francia e Inghilterra non erano disposte ad aiutarli a ricostruirsi una vita, un posto dove stare, un futuro.

Ogni migrante doveva sottoporsi a incalcolabili oneri, prima di poter ricevere un visto. Doveva dimostrare di essere in buona salute sia sul piano fisico che quello psichico; di essere nelle condizioni di integrarsi in una normale società, [doveva dimostrare] che non avrebbe vissuto ai costi di quella società. Amici e parenti dovevano garantire per lui o lei.

E noi che avevamo creduto nei momenti di rara inebriante fiducia, che dopo la liberazione […] ci avrebbero accolti come principi, come figli ritrovati e ci avrebbero portato a casa a spalle in trionfo, ci avrebbero fatto sentire quanto l’umanità provasse rammarico per tutto quello che ci era stato inflitto. […] La disgrazia dei sopravvissuti non rimase circoscritta ai tempi di guerra. La società non li voleva, né durante la guerra, tanto meno dopo».

L’indifferenza verso la sofferenza degli altri

Molti anni dopo alla vigilia del nuovo millennio ancora Elie Wiesel parla in un discorso pubblico dell’indifferenza verso la sofferenza degli altri che spoglia un essere umano della sua umanità. «Il prigioniero politico nella sua cella, i bambini affamati, i rifugiati senza dimora: non rispondere alla loro sofferenza […] significa esiliarli dalla memoria dell’uomo. Negando la loro umanità tradiamo e inganniamo la nostra.

La nostra Europa nel nuovo millennio non ha esitato a pagare la Turchia, le cui carceri sono stipate di prigionieri politici, perché trattenesse sul proprio territorio i profughi siriani quelli che non potevano più raggiungere i campi profughi della Giordania o del Libano affollati a dismisura di disperati che nemmeno l’Unhcr riusciva più a sfamare.

E proprio parlando dei siriani, martoriati da una guerra che non ha fine, ha scritto Domenico Quirico: «Il mondo, noi non ha fatto nulla per questa gente, se non affogarli, loro già moribondi, in un diluvio verbale. Un giorno quando tutto questo sarà finito, dovremo aver paura che si levino dalle loro tombe, dai loro campi di rifugiati, per mettersi a raccontare ciò che hanno visto e sentito e ciò che vogliono rivelarvi. Allora non sapremo dove fuggire, cercheremo di chiuderci le orecchie con le mani per non vedere quanto è grande la nostra paura e terribile la nostra vergogna. «[…] bisogna constatare che la forza bruta, malgrado il progresso e la mondializzazione, malgrado tutti i discorsi sul diritto internazionale e la nuova diplomazia, e i tanti trattati per contenere le guerre, può esercitarsi e prevalere senza ostacolo come ai tempi di Attila e di Hitler». (Succede ad Aleppo, Laterza 2017)

Il memorandum con la Libia

Ma come nel caso della Turchia gli stessi Stati firmatari della Dichiarazione per i diritti umani o della Convenzione di Ginevra, gli Stati che si sperticano nel ricordare i valori fondanti dell’Europa stringono accordi e memorandum non solo con Stati dove non esiste lo stato di diritto, ma con soggetti che non possono nemmeno considerarsi Stati.

Nell’ultimo memorandum firmato con la Libia nel mese di febbraio 2017 il nostro governo intende «risolvere la situazione dei migranti illegali», «garantire la riduzione di flussi migratori illegali», predisporre la «lotta contro l’immigrazione clandestina e il controllo dei confini». Inoltre dare sostegno «alle istituzioni di sicurezza e militari al fine di arginare i flussi di migranti illegali e affrontare le conseguenze da esse derivanti», fornire «il supporto tecnico e tecnologico agli organismi libici incaricati della lotta contro l’immigrazione clandestina[…] come guardia di frontiera e guardia costiera», realizzare l’ «adeguamento e finanziamento dei centri di accoglienza già attivi» e formare il «personale libico all’interno dei centri di accoglienza»; predisporre «campi di accoglienza temporanei in Libia, sotto l’esclusivo controllo del Ministero dell’Interno libico».

In un’audizione parlamentare del 2 agosto 2017, Federico Soda, direttore dell’Ufficio di coordinamento per il Mediterraneo dell’Organizzazione internazionale per le migrazioni (OIM) diceva: «Ci sono poco più di 30 centri di detenzione in Libia (mi sembra 31 o 34). Noi abbiamo accesso a una ventina di questi centri, dove le condizioni sono pessime e sospetto fortemente che in quelli a cui non abbiamo accesso le condizioni siano ancora peggiori. Stiamo lavorando sul miglioramento delle condizioni, però da un punto di vista istituzionale vorremmo chiusi questi centri di detenzione, perché non sono condizioni accettabili».

Centri di detenzione – non di accoglienza

Quelli che il nostro Governo nei suoi atti chiama centri di accoglienza dei migranti in Libia sono centri di detenzione dove si commettono i peggiori abusi contro uomini e donne. Le guardie e il personale sono spesso uomini delle milizie, che sfuggono al controllo di qualunque Ministero degli Interni, che è poco chiaro a sua volta a chi dovrebbe rispondere del suo operato.

Recente è l’accordo con il Niger approvato il 17 gennai 2018 dalle congiunte Camere del Parlamento. Gentiloni nella conferenza stampa di fine anno aveva detto che «andiamo in Niger in seguito a una richiesta del governo locale pervenuta a inizio dicembre per un contributo italiano a fare le cose che normalmente facciamo in questi paesi, come ad esempio in Libia: consolidare gli assetti di controllo del territorio e delle frontiere e rafforzare le forze di polizia locali». Le azioni di contrasto all’immigrazione dell’Europa e dell’Italia in Niger si erano fatte già fatte sentire. Sempre l’OIM segnala che se erano 291 mila le persone transitate per il Niger nel 2016 se ne sono registrate solo 31 mila nei primi dieci mesi del 2017.

Per i primi nove mesi del 2018 le missioni militari in Libia e Niger costeranno 65 milioni di Euro. Ma un prezzo immane pagheranno gli esseri umani che saranno fermati dalla guardia costiera libica nel loro viaggio in mare verso l’Europa e incarcerati in Libia. I migranti pagheranno spesso con la vita le nostre missioni che aiutano le polizie di frontiera locali, perché saranno costretti sul confine del Niger a prendere strade nel deserto più pericolose delle solite. «Verità e Giustizia cessano di essere valori astratti quando si tratta di migranti – scrive Quirico in Succede ad Aleppo –. Diventano cose concretissime, per le quali degli esseri umani sacrificano tutto, anche la loro giovinezza, la loro stessa vita. Par questo ci dovrebbero starci a cuore».

Crimini del passato, crimini del presente

Si continui pure a organizzare celebrazioni per tenere viva la memoria dei crimini del passato, ma non si soprassieda su quelli del presente. I nostri governi democratici compiono atti che violano i diritti umani e sono omissioni di soccorso in grande scala. In più consegnano puntualmente i rifornimenti bellici, non badando come vengano usati, se essi servano per uccidere cittadini inermi, se vengano impiegati per azioni militari che sono guerre di aggressione, come quella contro la popolazione dello Yemen o contro i curdi sul territorio siriano che si sono liberati da soli dall’Isis e adesso vengono bersagliati dai panzer forniti dalla Germania e guidati dai carristi dell’esercito turco.

«L’accordo con qualche remota tribù, o tirannello, dell’Africa da cui sono partiti perché cerchi di fermarli ci sembra una strategia praticabile», scrive Maurizio Quirico in Esodo (Neri Pozza 2017) . L’unica vera ideologia dei migranti è partire: «Ho visto nell’Africa a sud del Sahara villaggi e cittadine popolati ormai solo da vecchi. […] Travolgeranno tutto, non si fermeranno di fronte a nulla, sgretoleranno ogni muro, barriera, ostacolo».

Antonella Romeo, autrice e giornalista professionista indipendente, vive a Torino (www.antonellaromeo.it). Ha pubblicato fra l’altro “La deutsche vita”, Edizioni Seb27, Torino 2012. Im selben Verlag ist auch die deutsche Übersetzung erschienen.