DEMOCRAZIA: QUESTO “TUTTI” MI INTERESSA.


Il mercato, le élite e una visione darwinistica della società – gli strumenti di lotta sono arrugginiti. Anneghiamo la frustrazione che la democrazia ancora ci procura in illusioni e appelli formali. Un discorso di Peter Kammerer in sette paragrafi

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Immigrati a Milano – dipinto di Liu Xiaodong (2017) per la mostra „La Terra Inqieta“ (Triennale 28/4 – 20/8/2017)

Urbino – Dal ‘700 ca. ci anima l’idea che l’umanità, essendo l’uomo un progetto aperto, cioè in evoluzione, decida e possa decidere il proprio destino. Governare la propria storia e quella del rapporto con la terra che diventi la nostra patria. Anziché considerare la democrazia come “unica forma legittima di governo” (che puzza di esportazione e di imperialismo) preferirei parlare di “una forma politica dotata di un proprio intrinseco e sostanziale valore” (Luigi Alfieri) perché risponde alla prospettiva di una umanità che governi il proprio destino. Il significato di “governare” è quindi molto forte, nonostante tutti i dubbi che ci possono venire sulle possibilità reali di un governo delle cose umane e terrene.

1 – Crescente capacità di eludere le grandi questioni: è questo il prezzo da pagare per vivere in democrazia?

Quindi, se discutiamo di democrazia non parliamo solo dei metodi migliori o peggiori di formare un governo o di scegliere gli uomini che ci governano. Sì, anche di questo. Ma un dibattito sulle procedure e i contenuti della democrazia sarebbe debole senza questa prospettiva di fondo dalla quale nasce un’altra domanda: la democrazia è in grado di affrontare le grandi questioni che assillano il genere umano oggi? O più modestamente, almeno la crisi delle società opulente? Abbiamo poche ragioni per avere fiducia nel genere umano e che questo possa affrontare insieme i grandi problemi senza ricorrere alle guerre, problemi come: il lavoro umano ricattato anzichè “liberato” dallo sviluppo tecnologico, i suoi effetti devastanti sull’ uomo e la terra; le tendenze di redistribuzione della popolazione mondiale sul pianeta. Se parlo di democrazia vorrei pensare a un tipo di uomo che nasce in ambienti “democratici” di varie dimensioni e acquisisce così le virtù necessarie per saper affrontare questi problemi. La democrazia della quale parlo io ha quindi un forte sapore utopico.

Non viviamo tempi di amministrazione normale. Tutto il ‘900 ha vissuto in uno stato di emergenza diventato la nostra normalità. Infatti, la maggior parte delle costituzioni dei paesi democratici prevede “leggi di emergenza” che possono mettere temporaneamente fuori uso diritti democratici fondamentali. Vuol dire che le stesse democrazie pare non abbiano molta fiducia in se stesse e sono pronte (direi da sempre) a sospendere o a non osservare o a non promuovere diritti fondamentali pur di salvare il proprio assetto. (La vecchia storia: Tradire il Vangelo per salvare la chiesa). Viviamo sotto un continuo ricatto: “osare più democrazia” (la parola più estremista pronunciata da Brandt) vuol dire affrontare dei rischi (veri e montati ad arte) che nessuno vuole più affrontare. Il risultato è un continuo svuotamento della democrazia, non solo della correttezza delle procedure, della rappresentanza, della partecipazione, ma anche della presenza reale dei valori e della loro interpretazione. Paradosso: lo svuotamento strisciante pare che sia il prezzo che paghiamo per vivere in una democrazia. Come l’inflazione strisciante è il prezzo della stabilità. Un’ analogia sconcertante che come vedremo ha la sua logica. Ci muoviamo sul piano inclinato del male minore e non vedo controtendenze a questo declino. (Esempi: Terrorismo e Ius soli).

2 – La situazione: L’esempio del voto.

Alle ultime elezioni tedesche ho votato nonostante fossi deciso a non votare. Tutti i miei amici mi dicevano che io dovevo partecipare a quel rito che si chiama “elezioni” essendo il voto uno dei più importanti atti della democrazia. Avrei dovuto partecipare al rito di una comunità per rispetto della comunità, anche se considero il rito stesso del tutto obsoleto. Un atto di umiltà di fronte a un conformismo necessario? Esiste un tutti del quale facciamo parte e per rispetto di questo tutti seguiamo riti e facciamo gesti insensati, svuotati di senso e significato. Sono andato a votare senza illusioni se non quella che anche gesti vuoti, puramente formali, da un momento all’ altro possano riempirsi – per miracolo, per un vento che si alza improvvisamente … Ma temo sia più probabile che il voto diventi sempre di più un conforto illusorio, cioè “oppio per il popolo”.

3 – Il prezzo del “tutti”

Chi è il demos della democrazia moderna? Il “popolo”? Il popolo tedesco non esiste più se non come residuo del passato. Il concetto rimane comunque ambiguo: progressivo nell’ aggettivo “popolare” (Brecht: volkstümlich), reazionario come soggetto Volk (Brecht preferisce dire: Bevölkerung, popolazione). Oggi la destra si nutre del cadavere di questo concetto non sepolto. (Solo nella vecchiaia si capisce quanto siano importanti i cimiteri). Nella costituzione tedesca l’ uso del concetto di “popolo tedesco” ha creato una situazione imbarazzante con la sentenza della Corte Costituzionale del 31/10/1990 che esclude gli stranieri da ogni voto politico. C’è voluto un cambiamento della Costituzione nel 1992 per ammettere i cittadini “comunitari” al voto almeno delle amministrazioni locali, escludendo comunque “gli extracomunitari”. Una politica di “integrazione” che vede nella partecipazione politica almeno una delle sue colonne si trova perciò davanti a un ostacolo insuperabile (la sentenza afferma: Änderung unzulässig!), se non con l’ introduzione del ius soli e con facilitazioni nelle procedure di cittadinanza ( realizzate con una legge entrata in vigore nel 2000). Il principio “partecipare per integrarsi” viene rovesciato: “solo l’integrato può partecipare”. Un vecchio problema del diritto al voto nella democrazia: solo gli integrati, cioè i ricchi?

Nella crisi reale di concetti come “popolo” e “nazione” il demos della democrazia moderna può essere inteso solo come un tutti, un „tutti insieme” legato da vincoli di solidarietà per affrontare un futuro comune rielaborando storie e passati diversi. Si possono stabilire e tollerare delle eccezioni (esclusioni), si tratta sempre di un tutti relativo e mutevole, ma democrazia significa che alla lunga le tendenze di inclusione diventino più forti di quelle di esclusione. Democrazia è un processo nel quale una società costruisce il consenso (insisto sul carattere dinamico del concetto) per affrontare i limiti di questo tutti e il prezzo che il tutti richiede. Si tratta di un prezzo “culturale” e “economico”. I tutti infatti presentano uno svantaggio notevole: sono più stupidi dei pochi (e inaffidabili) e costano parecchio.

4 – Le élite come scorciatoia ?

Può essere che esista la saggezza del popolo, ma finora i governi, anche quelli democratici, hanno preferito piuttosto attingere agli esperti, agli specialisti, al sapere dei “migliori”. La democrazia rappresentativa prevede infatti numerosi filtri per impedire che i tutti abbiano veramente voce in capitolo e possano imporre le loro scelte e i loro gusti. La presenza di un’élite è considerata condizione necessaria di un’azione politica e amministrativa minimamente sensata. La possiamo chiamare in molti modi: classe dirigente, casta, aristocrazia ecc. ecc. E in questa sede non possiamo entrare nella problematica né della sua formazione (“tempo, risorse, regole, fiducia, valori e linguaggi condivisi”), né del suo rapporto con le masse. A 18 anni ero convinto della necessità delle élite e del fatto che io faccessi certamente, quasi naturalmente, parte di questo gruppo sociale. Finchè nel 1957 mi è capitato di leggere un discorso di Thornton Wilder (1897-1975,”Piccola città”, “Idi di marzo”, anche film, ecc.) tenuto a Francoforte per spiegare ai tedeschi ancora da rieducare i valori della democrazia in America. Un discorso che mi ha entusiasmato.

La tesi centrale di Wilder è questa: In una democrazia non conta più l’opinione delle élite, ma quella dell’uomo medio (un “mostro”, diceva Pasolini) e della maggioranza della popolazione (più cretina delle minoranze). Se è così, il nostro rapporto con la democrazia dipende dalla nostra fede nelle capacità intuitive di questa maggioranza finora tenuta fuori dalla storia. In polemica con la cultura delle élite Wilder cita una frase di Walt Whitman il quale si domanda: “Tra le grandi opere della letteratura europea arrivate da noi superando i tempi e l’oceano, e che oggi colpiscono e penetrano l’ America, c’è tra queste opere anche solo una che sia consona ai nostri valori come sono e come dovrebbero essere; una sola che non sia nella sua essenza un diniego e un insulto alla democrazia”? Omero, la Divina Commedia, il Paradise Lost e il Faust di Goethe un insulto alla democrazia? E Wilder spiega: Tutte queste opere esaltano il destino di pochi eletti che esclude la parte maggiore della popolazione “dalla verità e dalla bellezza” (vom Wahren, Schönen und Guten di Schiller, Goethe ecc.). Ecco la menzogna feudale che penetra nella nostra mente attraverso queste opere e la stessa struttura della nostra lingua. Infatti i nostri sentimenti li chiamiamo nobili e disprezziamo le bassezze. Ma ora, conclude Wilder, “ci spetta un compito grandioso, quello di creare nuovi miti, nuove metafore, nuove immagini che corrispondano alla nuova dignità dell’uomo in una democrazia”.

Di questo discorso che T.S. Eliot ha chiamato in una sua risposta un “hysterical nonsense” mi sono ricordato molti decenni più tardi studiando le “tesi sulla filosofia della storia” di Walter Benjamin. Benjamin affronta lo stesso problema spingendosi oltre quando scrive: “Tutto il patrimonio culturale … ha immancabilmente un’origine a cui non (possiamo non) pensare senza orrore. Esso deve la propria esistenza non solo alla fatica dei grandi geni che lo hanno creato, ma anche alla schiavitù senza nome dei loro contemporanei. Non è mai documento di cultura senza essere, nello stesso tempo, documento di barbarie”. C’è un passato da liberare e il comunismo sbaglia se guarda solo al sole dell’ avvenire. La rivoluzione ha la testa di Giano bifronte, non c’è futuro se non si libera il passato (“passare la storia a contrappelo”, rendere giustizia al passato e le sue vittime). Penso che nessuna élite – classe dirigente del passato e suo corresponsabile – sia capace di questo. Lo possono fare solo gli oppressi conquistando la democrazia.

Quando leggevo Wilder non sapevo nulla degli oppressi e della fede (probabilmente esagerata) di Marx e di Lenin nel grande potenziale creativo delle masse lavoratrici, ma nutrivo comunque una sana diffidenza nella lungimiranza delle élite: Hitler è stato un prodotto della cecità delle èlite che ha fatto disperare le masse; perfino l’élite par excellence, la classe militare prussiana con i suoi generali straordinari ancora ammirati, non aveva capito nulla della guerra, cioè del suo campo d’azione specifico, e solo in pochi si sono ribellati a Hitler e solo quando la guerra era già perduta. E per quanto riguarda la cultura classica e il suo luogo simbolo Weimar: che cosa dire del fatto che Weimar poteva assumere anche il significato del campo di concentramento di Buchenwald? Weimar e Buchenwald, due luoghi così vicini e apparentemente compatibili. Il discorso di Wilder fu per me la miccia che fece detonare la frase di Kant: “l’ illuminismo è l’uscita dell’uomo dallo stato di minorità che egli deve imputare a sé stesso”, e in particolare, aggiungevo io, ai generali, agli industriali, alle classi dirigenti ecc. ecc.

5 – Come imparano “i tutti”?

In una democrazia i tutti devono quindi trovare le condizioni per poter e voler uscire da un millenario stato di minorità. L’opera delle élite deve essere subordinata a questo obiettivo. Altrimenti le procedure democratiche anche le più sofisticate e giuste hanno un senso molto limitato. Una buona scuola per tutti, più tempo libero per tutti, condizioni di vita decenti per tutti, conosciamo queste condizioni alle quali però dobbiamo aggiungerne una, quasi sempre dimenticata o sottovalutata nelle democrazie occidentali: quella scuola elementare e fondamentale costituita dalle esperienze di lotte sociali. Di lotte democratiche. I tutti imparano soprattutto così. Imparare a considerare uno sciopero non solo come fatto economico, ma soprattutto pedagogico, fu per me un passo decisivo nella mia formazione democratica, un passo che potevo allora compiere solo in Italia, non in Germania.

Il diritto di lottare e la capacità di lottare costituiscono il fulcro della democrazia e costituiscono la premessa di un consenso vero. Non a caso i diritti che riguardano la libertà di associazione, di manifestazione, di sciopero, di libertà di opinione sono sempre i primi a essere negati, limitati, svuotati. La limitazione imposta alle lotte democratiche e il disprezzo per “la strada” (negli ultimi 30 anni non c’è governo in Europa che non lo abbia espresso) vanno pari passo con i tagli delle spese sociali (scuola, salute, distruzione di spazi pubblici e di stili di vita democratici). Così si tagliano le gambe ai movimenti democratici. Questa operazione è quasi sempre accompagnata da un feticismo del rito di voto e da proclami più o meno sinceri di fiducia nelle istituzioni. La storia italiana a partire dalla fine degli anni ’70 è un manuale che illustra questo doppio movimento.

6 – “Per tutti non basta”

La base ideologica di questo tipo di contro-offensiva sociale che fa breccia anche nella testa dei ceti sociali svantaggiati può riassumersi nello slogan “per tutti non basta”. Karl Polanyi ha osservato uno strano salto nella storia delle idee economiche: dall’ ottimismo di Adam Smith circa la ricchezza delle nazioni (1776) in solo due decenni si è precipitati al pessimismo più nero di Malthus (1798): Dio non ha apparecchiato la tavola per tutti. La miseria delle masse è il frutto di una legge naturale, non delle istituzioni della società. Un pessimismo condiviso sostanzialmente anche da Ricardo (1817, senza riferimento a Dio) e da tutti gli economisti classici (enorme risulta quindi il salto compiuto dall’ ottimismo marxiano).

L’idea che il salario alla lunga non potrà mai alzarsi sopra il livello di sussistenza produce una visione darwinistica della società, della lotta per la sopravvivenza e del diritto del più forte. Servirà a giustificare tutti gli orrori del colonialismo e del razzismo. L’insufficienza delle risorse per tutti sarà il Leitmotiv di un discorso famoso e fondamentale di Hitler nel 1932 davanti agli industriali tedeschi. Sarebbe troppo arduo spiegare in questa sede come l’ idea del non basta per tutti, coltivata dai potenti- anche dal presidente americano Bush in difesa dell’ american way of life e del suo consumo di risorse- abbia potuto diventare negli ultimi anni proprio nei paesi ricchi l’incubo di parti crescenti della popolazione. Certo ci deve essere stata una grave sconfitta delle speranze e della solidarietà che diventerà anche sconfitta della democrazia e non solo in termini numerici, perché si vuole stringere la cerchia del tutti.

Il per tutti non basta è una idea compatibile sia con il fascismo e razzismo, sia con le democrazie occidentali, come ci insegna la storia del Novecento. Ma non è compatibile con i movimenti che seguono gli ideali della fraternità e della solidarietà tra gli uomini, cioè la linea che possiamo chiamare: “tutti o nessuno”, la linea della democrazia radicale. Per loro il problema non sta nella limitatezza delle risorse ma nel modo di produzione e di distribuzione. Questione oggi sostanzialmente coperta da una Fatwa o un Tabù. Tutta la ricca esperienza di forme democratiche che possono corrispondere a altri modi di produzione e portarci in questa direzione è cancellata nella nostra memoria. E anche dal dibattito odierno sulla democrazia.

7 – La nostra obsoleta mentalità di mercato

Contro il pessimismo di Malthus e Ricardo Marx sottolinea le grandi potenzialità del capitalismo che spinge le forze produttive a livelli mai raggiunti dall’umanità e permetterebbe così agli uomini di poter ribellarsi contro il ricatto della “scarsità”. Questa ribellione, sappiamo, non si è verificata nei paesi di sviluppo avanzato. Tuttora mancano spiegazioni convincenti per il fallimento di questa speranza. Nei paesi ricchi, infatti, vige e vince fino ad oggi un patto sociale scellerato – reso storicamente necessario (dice Marx) in una prima fase della loro storia, ma che si rivela distruttivo se non viene disdetto in seguito: il patto prevede sviluppo e crescita in cambio di un tacito consenso per rapinare i popoli e il pianeta, e in cambio di un modo di produrre che distrugge le “fonti stesse di ogni ricchezza: l’uomo e la terra” (Marx). Di questo patto ne abbiamo affidato l`esecuzione al libero mercato – per lavarcene le mani. Il mercato decide che cosa e come si produce e in conseguenza su come distribuire.

Abbiamo delegato la nostra responsabilità a meccanismi che non conoscono responsabili, ma solo adempienti (che vanno incentivati) e inadempienti (che vanno puniti). I meccanismi del mercato agiscono al di fuori della morale per rispondere solo a criteri –del resto molto discutibili- di efficienza. Questo modo straordinario di disfarsi della morale la possiamo considerare tranquillamente come una delle invenzioni più potenti dell’umanità e, infatti, tutti ci sentiamo alleggeriti e sollevati di non essere responsabili dei crimini commessi da questi meccanismi. Una generazione condannata alla disoccupazione? Popoli all’estinzione? Modi di vivere secolari cancellati, patrimoni culturali profanati? Sviluppo come destino! Ma nel passato almeno il concetto di destino è stato sentito in modo ben più drammatico dei sentimenti surrogati offerti dalla religione del mercato.

Cosa c´entra la democrazia? Il fatto è che il mercato che cancella l’individuo responsabile (limitando drasticamente sia la sua formazione, sia il suo senso di responsabilità) è il modello della democrazia occidentale. Individui considerati sovrani votano come consumatori che scelgono tra i prodotti dell’ offerta; i partiti sono i concorrenti che agiscono in libera concorrenza; la campagna elettorale viene condotta da agenzie pubblicitarie, gli stessi candidati sono dei prodotti, i loro partiti delle aziende, ecc. Vige il principio della concorrenza e non quello della solidarietà. Però: la volontà dei consumatori/elettori “sovrani” non può mai esprimersi su che cosa viene prodotto e come. Questo vero potere sta altrove e la procedura non prevede di poter conoscerne l’indirizzo. La finzione della neutralità del mercato nasconde rapporti di potere e rapporti di forza inconfessabili.

Torniamo al discorso di Thornton Wilder: quel nemico della democrazia che lui aveva chiamato “menzogna feudale” lo possiamo chiamare menzogna del mercato. Il linguaggio e i concetti del mercato ci hanno profondamente penetrati e determinano la nostra capacità di giudizio e di intervento. Le sue parole chiave: valore, ricchezza, lavoro, sono tutte barate, hanno tutte un doppio significato che ci impedisce di dire la verità.

Lottare contro i verdetti del mercato è anacronistico. Vivere e lottare al di fuori della logica e delle regole di mercato (ogni fenomeno viene trasformato per essere oggetto di mercato = merce) è diventata un’ impresa difficilissima se non impossibile. Gli stessi strumenti di lotta costruiti in secoli sono arrugginiti, fuori uso o distrutti. Sono bastati pochi decenni. E anche noi siamo esseri anacronistici. Anneghiamo la frustrazione che la democrazia ancora ci procura in illusioni e appelli formali. Scegliamo di non vedere. Altri, meno felici di noi, reagiscono in modo più radicale.

Capisco il ritorno della religione, il papa e i terroristi: sono umani, più umani del mercato e del modo di vivere che i meccanismi del mercato ci impongono – con il nostro consenso implicito.

 

* Peter Kammerer, emeritierter Professor für Soziologie an der Universität Urbino. Übersetzt u.a. Pasolini, Gramsci und (zusammen mit Graziella Galvani) Heiner Müller ins Deutsche. Zusammen mit Enrico Donaggio (Universität Turin) hat er  das Kommunistische Manifest für den Feltrinelli Verlag (Mailand) neu übersetzt und herausgegeben:  
Karl Marx/Friedrich Engels: Manifesto del partito comunista. 112 pagg., 6,50 Euro. Universale Feltrinelli 2017